Prima di passare a un esame riepilogativo del racconto di
Nostradamus, vi ripropongo la quartina X,13 in originale, unitamente alla
traduzione di Patrian e alla mia, richiamando una particolare attenzione
sull’ultimo verso.
(Patrian)
Sazi di pastura
d’animali ruminanti,
Da essi portati
all’erbivoro ventre,
Soldati nascosti, le
armi crepitanti,
Non lontano dalla
città d’Antibes messi alla prova.
(Mia traduzione)
Sotto la pastura da
animali ruminanti,
Da loro condotti al
ventre di Wurzburg,
Soldati nascosti,
con le loro rumorose armi,
Accampati non
lontano dalla città di Antibes.
I carri carichi di pastura (fieno) per animali ruminanti,
coi quali ci si reca al centro (ventre) di Wurzburg, sono descritti alla
lettera. Sotto il fieno sono nascosti dei soldati con le loro armi. Un altro
gruppo di soldati, trasportati alla stessa maniera, si accampa presso Antibes,
cittadina portuale della Costa Azzurra. E’ lì probabilmente, e non (o non solo)
a La Rochelle, che dei Templari prendono il largo su delle navi.
Per quanto riguarda l’ultimo verso, bisogna notare che la
parola originale francese, che ho tradotto con “accampati” è “temptez =
rappresentazione tipografica di tentés”. Patrian traduce con “tentati, messi
alla prova”. Questo è sicuramente corretto ma una traduzione alternativa,
altrettanto corretta, a mio avviso più attinente al contesto, è appunto
“attendati, accampati” in attesa dell’imbarco. Non posso tuttavia escludere che
il gruppo diretto ad Antibes sia stato raggiunto dai soldati di Filippo il
Bello e “messo alla prova”, cioè impegnato in combattimento.
A quanto mi risulta, di nessuna delle due situazioni si ha
una specifica conferma storica.
La versione di Nostradamus, per quanto ne so, ha in comune
con la tradizione solo l’aspetto relativo ai carri da fieno; è invece
assolutamente originale per quanto riguarda le destinazioni. Come già detto, io
mi limito soltanto a proporla, nella convinzione che Nostradamus fosse “uno che
sapeva”.
La sopravvivenza dell’Ordine sembra testimoniata anche da
Dante Alighieri nei versi immediatamente successivi a quelli già riportati in
altro recente post (Purgatorio, XX – vv. 94-96):
O Signor mio,
quando sarò io lieto
A vedere la tua
vendetta che, nascosa,
fa dolce l’ira
tua nel segreto?
Dante invoca una vendetta “nascosa” e “segreta”. Molto ci
sarebbe da dire ma, per non uscire troppo dal nostro territorio d’indagine,
limitiamoci a una velocissima ipotesi. E’ possibile che Dante fosse a
conoscenza della sopravvivenza clandestina dei Templari e auspicasse una loro
futura vendetta? Quella stessa vendetta (“ascosa”, in “segreto”, messa in atto
in clandestinità) conclusasi (ma si è davvero conclusa?) con la rivoluzione
francese quando sembra che il boia, chinandosi verso il sovrano in procinto di essere
ghigliottinato, gli abbia mormorato: “Io sono un Templare e porto a compimento
la vendetta di Jacques de Molay”.
Come noto, il sovrano giustiziato, Luigi XVI, veniva
chiamato Luigi Capeto, in quanto discendente di Ugo Capeto, fondatore della
dinastia di cui era membro anche Filippo il Bello, sterminatore dei Templari.
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