Tecniche di Nostradamus

giovedì 31 gennaio 2013

The end


Concludiamo, per ora, questa lunga camminata attraverso la storia e l’opera di Nostradamus. Quello che dovevo e potevo dare l’ho dato. Il mio scopo era di fare emergere dalle tenebre un grande personaggio che ci ha lasciato un’eredità tuttora incompresa.
Leonardo da Vinci è considerato un genio per la versatilità delle sue opere. Dante Alighieri è considerato il sommo poeta grazie alla Divina Commedia. Il nome Nostradamus fa sorridere, perché viene associato a un buffo mago che indossa un cappello a cono e tiene una bacchetta in mano. In realtà, Nostradamus è uno storico, scienziato e poeta che nulla ha da invidiare ai grandi geni della storia, se solo sapessimo capirlo. La gente si è fatta un’idea sbagliata, perché a ciò è stata indotta da lui stesso.
Proprio in questo risiede la genialità dell’uomo che, inseguendo un suo scopo, riesce a rimanere incompreso sia agli occhi sprezzanti di chi avrebbe le qualità intellettuali e culturali per indagarlo, che agli occhi superficiali degli sprovveduti che vorrebbero leggere il giornale di domani.
Una indicazione dell’atteggiamento generale viene dagli indici di lettura di questo blog: quando ho pubblicato un post sul 21/12/2012 (fine del calendario Maya), gli accessi si sono impennati in maniera impressionante: frutto delle innumerevoli inquiries sul “futuro dell’umanità”, reindirizzate a queste pagine dai vari motori di ricerca! Questo è ciò che la gente cerca, ma non è ciò che Nostradamus ha lasciato.
Da parte mia, ho prospettato un nuovo modo di lettura delle centurie, fondato su rigorose tecniche di crittografia oltre che su complesse metodologie interpretative. Chi è seriamente interessato adesso conosce delle possibilità alternative lungo le quali procedere con i suoi studi. Quale che sia il livello finale che potrà raggiungere, non dovrà faticare molto per trovare dei riscontri obiettivi che gli confermino di essere sulla strada giusta; pregiudiziale importante, ovviamente, è che si renda disponibile alla novità.
Questa, comunque, non è una chiusura definitiva del discorso. E’ possibile che, occasionalmente, idee sporadiche vengano ancora condivise. In ogni caso, fin qui ho detto molto; bisognerebbe solo mettere un po’ di ordine nelle varie informazioni che ho dato… esattamente come ho dovuto fare io con le quartine di Nostradamus.

mercoledì 30 gennaio 2013

Caesar vs Perceval - 2


Riprendiamo la quartina II,79.

Sappiamo già che i primi due versi si riferiscono a Nostradamus, che crea le Centurie, e che gli ultimi due si riferiscono al suo interprete Cesare/Chiren, che trova la chiave di lettura (cfr. “Aspetto essoterico e aspetto esoterico”).
Abbiamo visto che il primo verso conduce a una relazione tra Nostradamus e Merlino, resa palese dalla quartina II,85. Non c’è da stupirsi se, alla stessa maniera, il terzo verso rivela una relazione tra Cesare e Perceval, da collegare alla quartina I,27.

Quella che segue è la lettura tradizionale degli ultimi due versi

….
….
Il grande Chyren (da lontano) toglierà,
Tutti i prigionieri dalla Selin bandiera.
In realtà, la parola “longin” non può essere intesa come “lontano”, che si dice invece “loin”. Del resto, non c’era alcun motivo perché Nostradamus debba storpiare la parola “loin”, che risponde già alle esigenze di metrica e di rima. Né si può pensare a un errore di stampa, dal momento che le quattro edizioni originali delle Centurie riportano tutte “longin”. A ulteriore conferma, l’errata preposizione “du”, che precede “longin”, è un segnale di allarme che raccomanda particolare attenzione.
Un dettaglio interessante viene fornito da Chavigny, presunto segretario di Nostradamus, il quale trascrive “Longin” con l’iniziale maiuscola, come se fosse un nome:

Di Chavigny, come noto, ho sempre sospettato che fosse un impostore; non è però da scartare l’ipotesi che  sia stato una pedina del “grande inganno” messo in piedi a sua insaputa. In fondo, come spiegato nel libro “Cabala, Templari e Graal”, è anche da lui che ho tratto spunto per lo studio della data di nascita di Nostradamus, con il risultato che sappiamo.
Non resta che concludere che, se Nostradamus ha scritto “longin”, intendeva scrivere proprio così; guardacaso, “Longin” è la traduzione francese di “Longinus” o “Longino”, nome del centurione romano che trafisse il costato di Gesù con la sua lancia: quella stessa lancia che, secondo Robert de Boron, è custodita assieme al sangue del Graal.
Tutto questo porta a dire che, se Cesare/Chiren è colui che trova la chiave delle Centurie secondo una prima lettura dei versi, egli è anche figura simbolica di colui che trova la “lancia di Longino” nella versione esoterica; è cioè figura di Perceval. A questa conclusione porta la contemporanea presenza, nello stesso verso, dei nomi “Chiren” e “Longin”. E’ nuovamente il gioco delle sovrapposizioni, già visto a proposito di Nostradamus/Merlino, nel quale ciascuna figura è anche rappresentazione dell’altra, per indicare che il mistero delle Centurie e quello del Graal sono strettamente intrecciati tra di loro.
La conferma di un effettivo riferimento a Longino arriva dalla quartina I,27 che, come indicato nel citato libro, conclude la ricerca del tesoro del Graal, specularmente alla scoperta dello scopo delle Centurie:

Sotto la catena Guienna dal ciel colpito,
Non lontano da lì è nascosto il tesoro
….
….

Questo è il luogo[1] ove, secondo Nostradamus, è nascosto il Graal, unitamente alla lancia. Però c’è un particolare interessante: ricordate quante volte abbiamo parlato dell’anagramma giusto al posto giusto? Praticamente, ogni quartina chiave nasconde al suo interno un anagramma che identifica sinteticamente ed esattamente il suo contenuto. Troppe volte per essere una semplice coincidenza! Anche in questo caso, la parola chiave non manca; ed è proprio là dove ci si aspetta di trovarla:
No[n loing] de la est caché le tresor = longin



[1] Ovviamente esistono altre quartine che lo dettagliano meglio. Ad es. la VIII,29:

Il quarto pilastro a Saturno consacrato,
Terremoto e diluvio spezzerà,
Di Saturno sotto il tempio un’urna si troverà,
D’oro Capion rubato e poi reso.

lunedì 28 gennaio 2013

Caesar vs Perceval - 1


Dopo aver messo a fuoco come Nostradamus assegni a se stesso il ruolo di Merlino, dobbiamo vedere come faccia a far rivestire a Cesare i panni di Perceval.
Cominciamo con alcune osservazioni di carattere generale. Ce n’è una, l’ultima, che è particolarmente significativa. Vediamole tutte:
Perceval è l’uomo che mette in atto i piani di Merlino, trovando il Graal; alla stessa maniera Cesare è colui che mette in atto i piani di Nostradamus, trovando la chiave delle Centurie.
Perceval deve primeggiare sugli altri cavalieri, riuscendo dove essi hanno fallito; Cesare deve primeggiare sugli altri interpreti, riuscendo a risolvere gli enigmi di fronte ai quali essi si sono arresi.
Perceval deve affrontare una serie di prove, prima di giungere al termine della sua ricerca; Cesare deve fare altrettanto con gli enigmi di Nostradamus.
Perceval, al termine della sua missione, non capisce e non pone la giusta domanda. Questo è l’aspetto più interessante. Anche Cesare, giunto al termine della sua ricerca, resta perplesso: è alle prese con un mucchio di versi la cui straordinarietà è innegabile, così come è innegabile che non siano frutto della mente di un folle geniale. Ma qual è il vero segreto nascosto? Solo quando scoprirà a “cosa servono”, allora Cesare diverrà immagine di Perceval che, al secondo tentativo, pone la fatidica domanda: “A cosa serve il Graal?”. Per entrambi, non basta trovare la strada; bisogna anche scoprire lo scopo dell’oggetto della ricerca.
Torniamo adesso alla quartina II,79.

venerdì 25 gennaio 2013

Nostradamus vs Merlino - 2


Scopriamo come fa Nostradamus a vestire i panni di Merlino. Per capirlo, dobbiamo legare la quartina II,79 alla II,85 che segue:


Il vecchio barbuto sotto lo statuto severo,
A Lyon fatto sotto l’Aquila Celtica:
Il piccolo grande troppo oltre persevera:
Rumore d’armi al cielo: mare rosso Lygustique.

Vi risparmio le consuete allucinanti letture proposte dai vari “autorevoli” interpreti; solo per darvi un’idea, si va dal Maresciallo Pétain di Ramotti a un generico “vecchio popolo della democrazia” di De Fontbrune, a un non ben identificato “principe celtico” di Pichon.
Non chiedetemi come arrivano alle loro conclusioni, perché davvero non lo so. Per quanto mi riguarda, mi limito alla spiegazione dei primi due versi. E lo faccio nel solito modo, evitando affermazioni generiche e cercando di capire perché Nostradamus ricorra a determinate parole ed espressioni.

I versi 3 e 4 non ci interessano in relazione al fine che ci stiamo prefiggendo e il loro approfondimento richiederebbe alcune spiegazioni che, per il momento, è prematuro fornire.

Il vecchio barbuto è lo stesso vecchio della quartina II,79. Nei vari libri si legge “vecchio senza barba”, per via del fatto che “plain” significa “piano”, nel senso di “superficie piana”. Questi ragionamenti sono di una ingenuità disarmante! Dire “vecchio con la barba” sarebbe una modalità descrittiva, ma che razza di descrizione è “vecchio senza barba”?
Tagliamo la testa al toro e ricordiamoci che, per sua espressa indicazione, Nostradamus va “ascoltato” piuttosto che “letto”, dal momento che la pronuncia prevale sullo scritto. L’ho già spiegato nel libro “Il vero codice di Nostradamus”, dal quale riprendo il brano che segue:

Nell’epistola a Cesare, Nostradamus avverte che "…mesmes que aux prononciations estant surprins escrits prononceant sans crainte…": parole senza senso apparente per dire che, a volte, si viene "sorpresi" da una "pronuncia" che prevale sullo "scritto".

Ricordo, soprattutto, quella vera e propria “stele di Rosetta” che è il Presagio di Maggio 1555, spiegato sempre nel citato libro. In quei versi, Nostradamus porta degli esempi: “cinq serre” (cinque chiude) va inteso come “sincère” (sincero), dal momento che la pronuncia è identica; allo stesso modo, Les cités revoltées” (Le città rivoltate) diventa “Les cités revoltés” (I citati [numeri] rivoltati), per indicare una inversione numerica.

Ora, la pronuncia di “plain” (piano) è uguale a quella di “plein” (pieno). Perciò, non siamo in presenza di un vecchio dalla faccia liscia, senza barba, ma di un vecchio barbuto (pieno di barba), come lo stesso Nostradamus si descrive nella quartina II,79 (La barba crespa e nera).

“Estatut” è uno statuto, una legge, un regolamento, un insieme di regole. E questo insieme di regole è “severo”, rigido.
Quindi, abbiamo un vecchio barbuto che agisce all’interno di una struttura rigida; non è difficile riconoscere lo stesso Nostradamus, che agisce all’interno delle rigorose regole di codifica delle sue Centurie.
Questo “statuto” viene stampato a Lione (à Lyon fait = fatto a Lione). Da questa città, infatti, vengono le edizioni originali delle Centurie: tipografie Macé Bonhomme, Antoine du Rosne, Pierre Rigaud e Benoist Rigaud.

Fin qui, la quartina II,85 non fa che ripetere sostanzialmente i primi due versi della II,79: un vecchio barbuto che crea le Centurie.
Ma adesso viene il bello: le Centurie, dice la quartina, sono composte sotto [l’ispirazione] dell’Aquila Celtica.

L’Aquila è un uccello dal significato altamente spirituale; potete rendervene conto cercando su Wikipedia la parola “Aquila”. Essa è simbolo di una visione superiore; è un uccello aruspice, messaggero che porta i presagi degli dei agli uomini; è uno dei quattro esseri viventi che stanno davanti al trono di Dio (Ap. 4, 7). In particolare, “l’aquila celtica” è simbolo della magia, specialità sia di Merlino che di Nostradamus, entrambi portatori di un segreto divino e di presagi.

Ma è nell’attributo “celtica” che si completa l’identificazione. Merlino è un druido, un sacerdote celtico. Può, quindi, ben essere rappresentato come “Aquila celtica” (mago celtico, druido). D’altra parte, non c’è dubbio che i versi in esame si riferiscano a Nostradamus, autore delle Centurie (il severo statuto fatto a Lione).
Evidentemente Nostradamus, in quanto “gestore” del segreto del Graal tramite le Centurie, ritiene di svolgere un ruolo assai simile a quello che Robert de Boron ha assegnato a Merlino. Da qui, considerati anche gli aspetti di carattere generale del post precedente, nasce un interscambio di personaggi che si sovrappongono e si confondono: l’aquila celtica è Merlino ma, simbolicamente, anche Nostradamus.
Se, adottando una visione riduzionista, preferiamo semplicemente attenerci alla letteralità del verso, possiamo intendere che la creazione delle Centurie avviene sotto l’ispirazione dell’aquila celtica, cioè sotto l’ispirazione della vicenda di Merlino, che è quella del Graal.
Comunque la mettiamo, il legame tra Nostradamus e Merlino appare indissolubile.

Riepiloghiamo:
Un vecchio barbuto (Nostradamus) agisce all’interno di uno schema rigido (le Centurie)
stampato a Lione sotto l’ispirazione dell’aquila celtica (Merlino).

Un ragionamento analogo, come stiamo per vedere, può essere fatto con riferimento a Cesare e a Perceval.

mercoledì 23 gennaio 2013

Nostradamus vs Merlino - 1



 La barba crespa e nera con un meccanismo,
Gente crudele e fiera soggiogherà:
Il grande Chyren da lontano toglierà,
Tutti i prigionieri dalla Selin bandiera.

L’interpretazione dei versi 2 e 4 della quartina II,79 resta invariata rispetto a quella già nota: si riferisce alla creazione delle quartine da parte di Nostradamus e alla scoperta della chiave di decifrazione da parte di Cesare.
La novità sta nei versi 1 e 3 i cui protagonisti, adesso, assumono rispettivamente il ruolo di Merlino e di Perceval. Sullo sfondo, il mistero delle Centurie, assimilabile al mistero del Graal.

Ricordo che, ben oltre il semplice confronto formale, il mistero del Graal è anche il “vero” contenuto delle Centurie. E’ un incessante e vorticoso interscambio di immagini, in cui i soggetti e l’oggetto della ricerca mostrano, a tratti, l’uno o l’altro dei due ruoli alternativi.

Cominciamo con alcune considerazioni di carattere generale su Nostradamus/Merlino.
Come Merlino è il regista del mistero del Graal, così Nostradamus è il regista del mistero delle Centurie.
Come Merlino è il mago visionario che, dopo aver vigilato sul destino del Graal, si ritira dalla scena, anche Nostradamus è l’uomo senza tempo del quale, nel mio libro, sostengo che “…studiando a fondo la vita di Nostradamus, si ha come l’impressione che quest’uomo provenga dal nulla e sparisca nel nulla. Non si sa quando sia nato… e non si sa quando sia morto”.
Similmente a Merlino, che vede nel futuro, anche Nostradamus si attribuisce tale facoltà, etichettando come profetiche le sue Centurie.
Come Merlino si muove in mezzo ai Cavalieri della Tavola Rotonda, anche Nostradamus si muove nell’ambiente del Cavalieri Templari, come è dimostrato nel mio libro.
Come Merlino è il mentore di Perceval, Nostradamus è il mentore di Cesare.
Non sottovalutiamo, infine, la questione del Notarikon, secondo i cui criteri le iniziali di Nostradamus (M.N.) coincidono con le lettere estreme di Merlin. Forse Nostradamus si è scelto di proposito quel nome d’arte? E’ possibile!

Nel prossimo post vedremo come fa a indossare i panni di Merlino.

lunedì 21 gennaio 2013

Quartina II,79: seconda lettura


Dopo esserci dilungati sulla leggenda che sta all’origine del Santo Graal, bisogna tornare al punto di partenza, che forse abbiamo già dimenticato: la spiegazione alternativa della quartina II,79:


Secondo una prima interpretazione, avevamo identificato lo stesso Nostradamus, nei primi due versi, e il suo interprete Cesare, negli ultimi due.
Poi ci siamo buttati a capofitto nella leggenda del Graal. Perché questo? Qual è il nesso con questa quartina?

I lettori del libro “La Cabala, i Templari, il Graal” sanno bene che il fine ultimo dell’opera di Nostradamus è proprio la trasmissione del segreto del Graal. In quel libro siamo arrivati a tale conclusione attraverso lo studio di alcune quartine e attraverso la rielaborazione cabalistica di alcuni indizi. Ci siamo però concentrati solo sui singoli pezzi del puzzle, ricostruendo un disegno che, all’interno dell’ambiente “surreale” nel quale ci muovevamo, potesse apparire logico. Abbiamo poi avanzato una ipotesi finale piuttosto “forte”, che appariva coerente con i pezzi del puzzle. Abbiamo lasciato sullo sfondo il percorso storico che aveva generato il Graal, dal momento che quell’analisi si sarebbe dovuta sviluppare su un piano diverso.
Mi spiego con un esempio: se alcune quartine (allineandoci, giusto per capirci meglio, alla tradizionale lettura profetica) vengono interpretate come episodi della rivoluzione francese, nessuno si sognerebbe mai di narrare l’intera storia della rivoluzione francese, quando si cimenta con quelle quartine. Questo è lo stesso atteggiamento che ho adottato nel mio libro, nei confronti del Graal.

Tuttavia, di fronte alla straordinarietà della leggenda, questo tipo di scelta mi ha lasciato insoddisfatto, tanto da indurmi a scrivere nel capitolo finale la precisazione che segue:

Mettendo insieme i pezzi che sono riuscito a ricostruire, mi sono formato un’idea piuttosto precisa dell’intera “storia”. Una storia talmente straordinaria e incredibile da apparire assolutamente fantasiosa. Forse andrebbe raccontata nella forma di romanzo, per risultare accettabile. Ma io non sono un romanziere e, perciò, provo ugualmente ad anticiparne i punti essenziali, nell’attesa di entrare in possesso di ulteriori elementi di prova e renderla interamente disponibile.

Ecco! Anche se rimango incapace di scrivere un romanzo, spero di essere riuscito ugualmente a raccontare nel blog la storia che sta alla radice delle “profezie” di Nostradamus. Ora ci troviamo di fronte a due rappresentazioni: da un lato la ricostruzione di una tradizione millenaria che, a un certo punto, sfocia nel mistero del Graal; dall’altro, nel libro, l’appropriazione del segreto da parte di Nostradamus e la sua conversione in quartine enigmatiche.

La cerniera di congiunzione tra le due parti è data proprio dalla quartina II,79, nella quale Nostradamus (che, in una iniziale interpretazione, riferisce a se stesso i primi due versi e all’interprete Cesare gli altri due) assume adesso il profilo di Merlino, assegnando a Cesare quello di Perceval. Lo abbiamo già anticipato nei post precedenti (Il libro del Graal: Merlino e Ancora su Perceval).
Questa è la lettura alternativa della quartina II,79 che ha motivato la lunghissima digressione, dalla quale siamo appena rientrati.

Dobbiamo vedere quali sono gli elementi che giustificano questa seconda lettura. Alla fine, se ci convinceremo che Nostradamus si è ispirato veramente a Merlino e a Perceval, l’esistenza di un collegamento tra Centurie e Graal riceverà la più definitiva delle conferme.

venerdì 18 gennaio 2013

Longinus


Come Giuseppe di Arimatea, anche la figura di Longino assume rilevanza per la sua connessione con il sangue di Cristo. Egli è infatti colui che trafigge il costato di Gesù crocifisso.

L’unico dei Vangeli canonici che riporta l’episodio è quello di Giovanni:

Allora i Giudei, essendo la Parasceve, affinché non restassero in croce i corpi durante il sabato – quel sabato era solenne – chiesero a Pilato che fossero rotte le gambe ai condannati[1] e venissero tolti via. Andarono dunque i soldati e ruppero le gambe al primo e all’altro che erano crocifissi  con lui. Invece, venuti a Gesù, visto che era già morto, non gli ruppero le gambe; ma uno dei soldati gli aprì il costato con una lancia e subito ne uscì sangue e acqua (Gv. 19, 31-34).

Siamo di fronte a uno dei brani più controversi di tutti i Vangeli. Tuttavia, diversamente da quanto fatto per Giuseppe di Arimatea, preferisco affrontarlo a volo d’uccello.
Nel caso di Giuseppe, era necessario metterne bene a fuoco la figura, per verificare la verosimiglianza del dialogo tra lui e Gesù, proposto da Robert de Boron.
Nel caso di Longino, invece, si può prescindere dal personaggio; ci interessa solo sapere che la sua lancia fa apparizione nel castello del Re Pescatore, unitamente alla coppa del Graal. Al riguardo, Robert de Boron racconta che, arrivato al castello, Perceval vede una lancia grondante sangue e il vaso del Graal. Il Re Pescatore gli dice: “Questa è la lancia con la quale Longino colpì Gesù sulla croce”.

Può essere interessante precisare che il Vangelo di Giovanni non fornisce il nome del soldato, presente invece nell’apocrifo di Nicodemo (XVI, 7):

…e che il soldato Longino trafisse il suo costato con una lancia…

Di Longino non si sa nulla. Sembra che si sia convertito al cristianesimo e sia morto martire. Leggendaria è diventata invece la sua lancia, cercata per mari e per monti, perfino dai nazisti del terzo Reich. Come per molte altre reliquie, esistono diversi improbabili originali, custoditi in posti diversi.

Per quanto ci riguarda, è singolare osservare come entrambi i protagonisti ai piedi della croce abbiano  a che fare con il sangue di Gesù: Longino fa sgorgare il sangue dal suo costato, trafiggendolo con la lancia; Giuseppe di Arimatea raccoglie il sangue fuoriuscito dalle ferite[2], dopo la deposizione dalla croce.
Se è vero che il segreto del Graal consiste nel segreto del sangue, non c’è da meravigliarsi che Robert de Boron custodisca insieme sia la lancia che la coppa.


[1] La frattura delle gambe, detta “crurifragium”, aveva lo scopo di privare il corpo di ogni sostegno, provocando l’asfissia del condannato.
[2] Ricordo che l’episodio di Giuseppe di Arimatea che raccoglie in una coppa il sangue di Cristo non è narrato da alcun Vangelo, ma solo da Robert de Boron.

giovedì 17 gennaio 2013

Da Adamo ad oggi


Il Vangelo attribuito a Giovanni viene scritto[1] da un discepolo che opera in incognito, diverso dagli Apostoli e particolarmente caro a Gesù. Abbiamo ipotizzato che egli fosse Giuseppe di Arimatea, dal momento che questa identificazione fornisce risposta ad alcuni quesiti, altrimenti insolubili.
A questo discepolo Gesù affida il suo segreto finale, da custodire e tramandare nei secoli.

In mezzo ad alcune congetture, una attenta analisi dei vangeli, canonici e apocrifi, fornisce anche delle certezze.
Le congetture riguardano essenzialmente l’identità del discepolo misterioso e la natura del segreto che gli viene affidato.
La certezza più notevole, invece, è una particolare vicinanza a Gesù che, tuttavia, pone degli interrogativi sul perché di questa predilezione.
Probabilmente le motivazioni vanno ricercate in uno sfondo ideologico e religioso comune (essenismo) oppure in una maggiore affidabilità del discepolo.
Emerge infatti dai Vangeli che gli apostoli sono piuttosto rozzi, non capiscono bene il messaggio di Gesù, aspirano alla gloria, scappano via nel momento del pericolo.
Il discepolo speciale, invece, è un uomo colto, autorevole, pienamente consapevole delle sue scelte:   il quadro si addice perfettamente a Giuseppe di Arimatea[2], membro del Sinedrio che, per amore, si fa avanti quando gli altri fuggono, mettendo a disposizione il sepolcro di famiglia. E’ diverso dagli altri, quindi, e questa diversità gli comporta la gelosia degli apostoli, che lo fanno quasi sparire dalla tradizione cristiana anche per il timore che, essendo a conoscenza della dottrina più segreta di Gesù, possa diffondere insegnamenti diversi dai loro, particolarmente orientati alla ritualità liturgica piuttosto che alla vera conoscenza.

Riprendo, per un confronto, le parole che Robert de Boron, nel suo “Libro del Graal”, mette in bocca a Gesù, quando si rivolge a Giuseppe di Arimatea:

Tu eri un mio buon amico e io ti conoscevo bene. Ero certo che mi avresti aiutato e soccorso nel momento in cui nessuno dei miei discepoli poteva aiutarmi. Non ho portato qui nessuno dei miei discepoli perché nessuno di loro conosce l’amore che unisce me e te. Tu mi hai amato in segreto e in segreto io ho amato te.
[Con riferimento al calice contenente il sangue di Cristo]: Giuseppe, è a te che spetta custodirlo e a coloro ai quali lo affiderai.
Poi, Boron aggiunge: Allora Gesù Cristo insegnò a Giuseppe alcune parole che non oso dire né rivelare.

Come si vede, la coerenza tra la narrazione di Boron e la ricostruzione evangelica è totale: anche per Boron il protagonista è Giuseppe, che ha amato Gesù in segreto, che da lui è stato amato in maniera speciale, che ha ricevuto l’incarico di custodirne il sangue, che ha ricevuto degli insegnamenti segreti.
Robert de Boron, con il suo Giuseppe di Arimatea, fornisce perciò tutte le conferme che ci servono. Ecco perché il suo romanzo non è una semplice favola medievale, ma risponde a precise esigenze iniziatiche, di difficile accessibilità. Per arrivare alle sue conclusioni, a meno che non abbia potuto attingere a fonti più dirette, Boron ha dovuto fare, molti secoli prima di me, gli stessi ragionamenti che io ho presentato in parte in questo Blog.

Dopo la crocifissione e la resurrezione di Cristo, Giuseppe trasferisce in Europa l’oggetto del segreto, che prende il nome di Graal.
Adempie a questo compito tramite il cognato, secondo Boron, o personalmente, secondo altre leggende. Ai fini del seguito, questo non assume rilevanza determinante.

Al prezzo di una descrizione piuttosto estesa, ho cercato di dare coerenza all’intera narrazione, esaltando tutti gli elementi che assicurano ad essa continuità logica[3], a partire dagli albori dell’umanità. Un lavoro unico, scandito dai collegamenti tra le specificità della storia di Abramo, l’enigma della genealogia di Matteo, l’identificazione del discepolo misterioso del quarto Vangelo, la leggenda del Santo Graal e, come sanno i lettori del mio ultimo libro, la finalità delle profezie di Nostradamus.
Nessuno ha mai tentato una ricerca del genere, perché nessuno ha mai potuto beneficiare degli spunti che mi sono stati forniti dalla decifrazione delle Centurie.
Non ho la pretesa di sostenere di aver colto nel segno sotto ogni aspetto. E’ possibile che degli aggiustamenti si rendano in futuro necessari; però sono assolutamente certo che la direttrice della strada percorsa rispetti le indicazioni di Nostradamus che, anche se apparentemente trascurato, rimane il soggetto principale del Blog.

Non ci resta, a questo punto, che passare a un altro personaggio evangelico che, pur recitando un ruolo marginale nel dramma della crocifissione, diventa figura di spicco nella narrazione di Robert di Boron: sto parlando del soldato romano conosciuto come Longinus.




[1] Per autore del Vangelo si intende il suo iniziatore; infatti, è praticamente certo che alla struttura originaria si siano aggiunti dei brani successivi, ad opera di altri.
[2] Naturalmente esistono altri elementi, alcuni dei quali esaminati nei post precedenti, che confortano questa ipotesi.
[3] Ho cercato di far sì che il contenuto del Blog fosse autoesplicativo; tuttavia, ho lasciato in ombra le indicazioni di Nostradamus, in quanto già trattate in maggior dettaglio nel libro “Cabala, Templari, Graal”.

mercoledì 16 gennaio 2013

Il Cenacolo di Leonardo da Vinci


Avevo promesso una lettura personale del Cenacolo di Leonardo da Vinci, il dipinto più famoso dell’ultima cena: vi si vede Gesù, al centro, e i 12 apostoli in gruppi di 6, a destra e a sinistra.
Naturalmente, non essendo di fronte a una fotografia, non possiamo escludere che, alla cena, fossero presenti anche altre persone: il padrone di casa, anzitutto; forse anche Maria, madre di Gesù, e Maria di Magdala, che hanno seguito Gesù a Gerusalemme dalla Galilea, tant’è vero che le ritroveremo ai piedi della croce (Gv. 19, 25).
Sappiamo che era certamente presente il discepolo prediletto, “appoggiato sul petto di lui” (Gv. 13, 23). Poiché, seguendo il discorso che stiamo portando avanti, egli non era uno dei dodici apostoli, il numero dei commensali deve aumentare di una ulteriore unità.


Dan Brown, nel suo famoso “Codice da Vinci”, rileva che, nonostante i Vangeli facciano riferimento al vino, sulla tavola non è raffigurato alcun calice. Fa notare, inoltre, che il personaggio alla destra di Gesù sembra una donna. Deduce, quindi, che quella donna sia Maria Maddalena e che il calice mancante sia semplicemente rappresentabile con una “V”, che può essere disegnata tra la figura di Gesù e quella della presunta Maria.
In tal caso, ovviamente, nel dipinto mancherebbe un apostolo (sostituito dalla figura di Maria) e si porrebbe un ulteriore quesito, che Dan Brown non si preoccupa di risolvere. La sua tesi, perciò, è piuttosto debole.
Un altro autore, Javier Serra, nella sua “La cena segreta”, concorda con Dan Brown sul fatto che il Cenacolo di Leonardo sia una specie di indovinello. La sua soluzione, però, propone che il dipinto rappresenti un sacramento cataro, il “Consolamentum”. Ogni lettera di questa parola è l’iniziale di un attributo di ciascuno degli apostoli, oltre che di Gesù[1].
La tesi è suggestiva ma appare forzata. Non spiega, peraltro, il vuoto esistente tra Gesù e il personaggio alla sua destra; quel vuoto che non è sfuggito a Dan Brown, il quale ne fa una “V”.

La mia tesi fa riferimento non a ciò che c’è, ma solo a ciò che manca. In quell’ammasso di corpi ammucchiati nel dipinto, salta all’occhio l’inspiegabile vuoto alla destra di Gesù. Secondo me, oltre al calice, manca dunque una figura: quella del discepolo prediletto che, non essendo apostolo, non ha titolo per essere rappresentato da Leonardo; al suo posto resta semplicemente un vuoto incolmabile.
Mettiamo un calice sulla tavola, mettiamo la figura di Giuseppe di Arimatea alla destra di Gesù (dove altro potrebbe stare il discepolo prediletto?), e non resta più spazio per gli indovinelli… esattamente come stiamo cercando di dimostrare, ricostruendo degli scenari evangelici che diano coerenza al racconto di Robert de Boron: un Giuseppe di Arimatea (assente) che raccoglie il sangue di Cristo nella coppa da vino (assente).


[1] Cominciando da destra:
Simone è il Confector (colui che porta a termine), Giuda Taddeo è Occultator (colui che nasconde), Matteo è Navus (il diligente), Filippo Sapiens (il sapiente), Giacomo maggiore Oboediens (obbediente), Tommaso Litator (colui che placa gli dei), poi c' è Cristo (la A di alpha); quindi c' è Giovanni il Mysticus (colui che conosce il mistero), Pietro Exosus (colui che odia), Giuda Iscariota Nefandus (l'empio), Andrea Temperator (il moderatore), Giacomo il minore Venustus (pieno di grazia), Bartolomeo Mirabilis (il prodigioso). 


martedì 15 gennaio 2013

Progetto finale


Torniamo al dialogo tra Gesù e Pietro.
A prescindere dai toni, è evidente che Gesù coltiva sul discepolo beneamato un progetto particolare. Quel “se io voglio…” non è una semplice espressione ipotetica, che lascia il discepolo senza un futuro. E’ solo un voler tacere su quel futuro, che un discepolo così stretto deve necessariamente avere, come e più di tutti gli altri: un incarico speciale, quindi, come abbiamo fin qui ipotizzato.
Interessante anche il riferimento al ritorno di Cristo: “Se io voglio che egli resti finché io ritorni…”. E’ davvero un’esemplificazione o contiene il germe del progetto?
Anche Paolo, nella sua ricostruzione del rito dell’Eucaristia, sostiene che “…tutte le volte che voi mangiate di questo pane e bevete di questo calice, celebrate la morte del Signore, finché egli venga” (1 Corinti, 11, 26).
Nel brano del Vangelo dal quale siamo partiti, è detto che “Si sparse perciò tra i fratelli la voce che quel discepolo non doveva morire. Ma Gesù non disse a Pietro che quel discepolo non doveva morire” (Gv. 21, 23).
Certamente l’affermazione di Gesù viene fraintesa, ma forse non del tutto, se è vero che l’incarico affidato a Giuseppe consiste nella custodia del sangue della “vita eterna”. Appare indiscutibile, sotto questo aspetto, la coerenza con il racconto di Boron.

lunedì 14 gennaio 2013

Pietro contro Giuseppe?


Continuando con la nostra analisi del brano evangelico, osserviamo che Pietro, pur perdendo il coraggio al tavolo dell’ultima cena, e non solo allora, possiede un carattere spavaldo[1]. Nella scena finale, quando Gesù gli affida le sue “pecore” e lo invita a seguirlo,  la sua baldanza lo fa sentire “un generale” che vuole discutere delle sorti altrui. Però non chiede degli altri apostoli, come sarebbe più logico.
Chiede, invece, di essere reso partecipe della decisione sulle sorti del discepolo anonimo che, anche se non lo dice apertamente, considera un intruso nella cerchia dei dodici prescelti (undici, dopo il tradimento di Giuda). E lo chiede evidentemente male! Talmente male, da meritarsi una rispostaccia irritata: “Se io voglio… a te che importa? Tu seguimi” (Gv. 21, 22).
Traduco: “Pensa a fare la tua parte e non t’immischiare nei progetti che ho per lui”.
Non è normale una risposta del genere, data a colui che è appena stato nominato vicario (“pasci le mie pecore”, Gv. 21, 17), a meno che la domanda non tradisca gelosia, invidia o intolleranza; un interessamento sinceramente affettuoso e preoccupato avrebbe probabilmente ottenuto una risposta più serena e tranquillizzante.
Quante volte, da ragazzi e forse anche da adulti, abbiamo assunto un atteggiamento di complicità, all’interno di una cerchia di amici, chiedendo come comportarci con un tizio estraneo al nucleo: “Che facciamo? Lo portiamo al cinema con noi? Lo rendiamo partecipe di quello che stiamo facendo? Ci inventiamo una scusa per escluderlo?”.
Ecco! Questo deve essere stato l’atteggiamento di Pietro, che proprio di quel discepolo domanda e non degli altri apostoli, provocando la risposta che ha ricevuto.

Non si pensi che voglia fare della propaganda anti-Pietrista. Tutt’altro! Ho rispetto e venerazione per il primo degli Apostoli, e non ho alcuna intenzione di oscurare il riscatto della sua morte (crocifisso a testa in giù, secondo la tradizione). Però resta il fatto che aveva un caratteraccio!

L’ostilità verso il discepolo, se questi è veramente Giuseppe di Arimatea, sembra raggiungere il culmine nei giorni successivi all’ascensione, quando bisogna nominare un dodicesimo apostolo, in sostituzione di Giuda. La scelta è ristretta a Giuseppe, soprannominato Giusto, e a Mattia. Si tira a sorte e viene prescelto Mattia (Atti 1, 23-26). Può essere che “Giuseppe il Giusto” sia “Giuseppe di Arimatea”, che Luca (Lc. 23, 50) qualifica come  “persona dabbene e giusta”? Se veramente si tratta dello stesso Giuseppe, chi meglio di lui? Perché tirare a sorte? Forse per escludere l’inviso discepolo prediletto con una estrazione truccata?

La rottura definitiva è consumata e Giuseppe sparisce dalla tradizione cristiana. Resta, perché incancellabile, l’episodio del sepolcro. Il discepolo più amato da Gesù, rifiutato dagli apostoli, trova nella clandestinità il rifugio migliore per lo svolgimento della sua missione.

Solo illazioni, ovviamente; ma illazioni abbastanza motivate, soprattutto se teniamo conto che, anche se qualificassimo come fantasie le ipotesi avanzate nelle mie ricostruzioni, Giuseppe di Arimatea avrebbe obiettivamente tutte le carte in regola, e anche di più, per godere di una speciale venerazione, in ricordo del suo comportamento ai piedi della Croce. Perché, allora, gli viene negata questa visibilità?



[1] Dopo la trasfigurazione: “Maestro, com’è bene per noi star qui! Facciamo tre tende, una per te, una per Mosè, una per Elia” (Mc. 9, 5). Pietro offre la sua vita: “Pietro insisté: E perché, Signore, non posso seguirti ora? Darei per te la mia vita. Gesù soggiunse: Tu darai la tua vita per me? In verità, in verità ti dico: non canterà il gallo, che già mi avrai rinnegato tre volte.” (Gv. 13, 37). Gesù preannuncia la sua morte: “Ma Pietro, trattolo a sé cominciò a fargli rimostranze dicendo: Oh no, Signore! Questo non ti accadrà!” (Mt. 16, 22). Pietro vorrebbe camminare sulle acque: “Allora Pietro gli disse: Signore, se sei tu, comanda che io venga a te sull’acqua” (Mt. 14, 28). Pietro colpisce uno degli uomini che arrestano Gesù: “Allora Simon Pietro, che aveva una spada, la sfoderò e colpì un servo del Sommo Sacerdote e gli tagliò l’orecchio destro” (Gv. 18, 10).

sabato 12 gennaio 2013

Il discepolo prediletto


Nel brano evangelico del post precedente ci viene detto, anzitutto, che il discepolo di cui si parla è quello che già ben conosciamo, il narratore: “E’ lui il discepolo che attesta queste cose”. Poiché si definisce “prediletto”, si potrebbe pensare che sia lo stesso evangelista, quando parla di sé, a magnificare la propria figura, per evidenziare la sua vicinanza al Maestro. Diamo allora uno sguardo a un episodio che mette obiettivamente in luce la sua posizione privilegiata, accentuando per contrasto una minore intimità tra Gesù e gli apostoli.

Il passo che a tal proposito ci interessa (“Pietro, voltatosi, vide che gli veniva dietro il discepolo prediletto da Gesù, quello che nella cena si era chinato sul petto di lui”) ci riporta a una scena dell’ultima cena, quando è stato chiesto a Gesù chi fosse il traditore:

Or uno dei suoi discepoli, quello da Gesù prediletto, stava appoggiato sul petto di lui. A questo fece cenno Simon Pietro per dire: “Domanda di chi parla” (Gv. 13, 23-24).

E’ straordinario! Pietro, il primo degli Apostoli, non ha il coraggio di porre la domanda e ricorre all’intermediazione di quel discepolo, per via della sua particolare confidenza con Gesù. Sa, evidentemente, che Gesù è a volte disposto a dire al beneamato delle cose che non direbbe agli altri, agli apostoli. Possono questi, i dodici prescelti per la predicazione della buona novella, chiamati a giudicare le dodici tribù d’Israele (Mt. 19, 28), non essere gelosi? Come possono accettare che un “semplice” discepolo, senza stellette sulla spallina, goda di una maggiore fiducia da parte del Maestro?

Il discepolo misterioso, da parte sua, non si sente affatto inferiore a loro; anzi, al tempo in cui scrive il Vangelo, tutto è ormai compiuto ed egli conosce perfettamente il valore della sua missione. Per questo, non avendo titolo per qualificarsi come apostolo, ma non volendo comunque sminuire la sua posizione agli occhi dei lettori del suo racconto, non usa mai la parola “apostolo” per designare qualcuno dei “dodici”: parla sempre e solo di discepoli. E’ una scelta terminologica deliberata, non priva di un grande significato: per lui il discepolato, cioè l’intima adesione agli insegnamenti del Maestro, gode di maggiore dignità dell’apostolato, che scaturisce da un incarico.

venerdì 11 gennaio 2013

I due assiomi


Abbiamo fatto una serie di ipotesi che, a prescindere della validità che ad esse vogliamo conferire, evidenziano due certezze inconfutabili:

Tra le persone che circondano Gesù esiste un discepolo misterioso, autore del quarto Vangelo, noto come “Vangelo secondo Giovanni”.
Costui attribuisce all’Eucaristia una connotazione diversa da quella degli altri evangelisti e dell'apostolo Paolo.

Attorno a questi due assiomi, abbiamo costruito la teoria di un incarico speciale assegnato al personaggio sconosciuto, che abbiamo identificato in Giuseppe di Arimatea. Abbiamo supposto, anche se non lo abbiamo ancora dimostrato, l’esistenza di un clima di ostilità tra lui e gli apostoli (Pietro, soprattutto), inizialmente per motivi di gelosia e poi, forse, per paura che la Chiesa di Pietro fosse minacciata da una nascente comunità riconducibile a Giuseppe e ai suoi successori (a tempo debito, ai Cavalieri Templari).

Il rapporto speciale del nostro discepolo con Gesù, l’assegnazione a lui di un incarico particolare, la sua diversità rispetto agli apostoli e l’ostilità nei suoi confronti trovano piena conferma nei brani di chiusura del citato quarto Vangelo.

Leggiamo:

[Gesù], dopo aver così parlato [a Pietro], aggiunse: “Seguimi”.
Pietro, voltatosi, vide che gli veniva dietro il discepolo prediletto da Gesù, quello che nella cena si era chinato sul petto di lui e gli aveva domandato: “Signore, chi è il tuo traditore?”. Vedutolo, Pietro domandò a Gesù: “Signore, e di lui che ne sarà?”. Gesù gli rispose: “Se voglio che egli resti finché io ritorni, che te ne importa? Tu seguimi”.
Si sparse perciò tra i fratelli la voce che quel discepolo non doveva morire. Ma Gesù non disse a Pietro che quel discepolo non doveva morire, bensì: “Se io voglio che egli resti finché io ritorni, che te ne importa?”.
E’ lui il discepolo che attesta queste cose e le ha scritte (Gv. 21, 19 – 24).

Per analizzare compiutamente le implicazioni di queste poche righe occorrerebbe un intero libro. Cercherò di sintetizzare più che posso. 

giovedì 10 gennaio 2013

Le due tradizioni


Partendo dalle precisazioni del post precedente, possiamo ipotizzare che la celebrazione dell’Eucaristia  sia stata l’evento culminante della cena solo per gli apostoli; non per il discepolo prediletto (Giuseppe) al quale, in quell’occasione, sarebbe stata invece rivelata la relazione profonda del sangue di Cristo con il suo ritorno alla vita (sangue e vita: il segreto di Abramo) alla fine dei tempi (“finché egli venga”). Un’ipotesi al riguardo, proposta nel mio libro sul Graal, trova conferma nella decifrazione del messaggio di Nostradamus.
Le parole segrete di Boron relative al Graal, rivelate a Giuseppe, altro non sarebbero se non la spiegazione di questo mistero, accompagnata dalle istruzioni di raccogliere il sangue di Gesù; cosa che Giuseppe fece, sempre secondo Boron, quando ne depose il corpo dalla Croce. E’ solo finzione narrativa il fatto che, nella versione romanzesca, il segreto venga svelato a Giuseppe durante la sua permanenza in prigione, nel corso di un’apparizione del risorto.

Altra finzione è che Giuseppe abbia utilizzato la coppa che, ancora secondo Boron, era stata usata per celebrare il sacramento durante l’ultima cena. Difficile immaginare che egli sia andato a prendere il cadavere di Gesù con una coppa in mano! Sarebbe stato invece utilizzato un piccolo contenitore, che Nostradamus chiama “urna”.

Da Giuseppe, quindi, sarebbe nata una nuova linea di successione, in perpetuazione di quella declinata da Matteo, ma diversa da quella di Pietro, che si perpetua nella Chiesa Cattolica. Ecco perché egli non esalta l’istituzione dell’Eucaristia nel corso dell’ultima cena, trattandosi di evento che assume rilievo particolare solo per gli apostoli, i quali dovranno svolgere una missione pubblica; lui, invece, dovrà svolgere una missione riservata (la custodia del sacro sangue), che giustifica il suo silenzio. La scelta di non rivelare il suo nome, nel Vangelo che ci ha lasciato, conferma la sua decisione di restare nell’anonimato e di salvaguardare il contenuto della sua missione.

Non finisce qui.
L’esistenza di un incarico segreto affidato al discepolo misterioso emerge da alcune parole di Gesù; è proprio la gelosia per quell’incarico particolare a fornire una convincente spiegazione per l’ostilità che la Chiesa ha sempre manifestato nei confronti di Giuseppe.

Dopo aver affrontato questi ultimi due temi fornirò, a semplice titolo di curiosità e non certo come prova, la mia personale e innovativa lettura del Cenacolo di Leonardo da Vinci che, a quanto si dice, conosceva la verità sul Graal.

mercoledì 9 gennaio 2013

L'Eucaristia: ci hanno detto la verità?


Nel tentativo di dare una base concreta all’incarico speciale conferito a Giuseppe, secondo Boron, e nell’interrogarci sul contenuto delle parole segrete rivelategli da Gesù, andiamo a cercare dei riferimenti nei Vangeli. Avverto subito che non troveremo risposte precise (non è una novità), però ci imbatteremo in alcuni elementi, anche molto forti, sui quali solitamente non si riflette abbastanza.

Nel corso della nostra indagine, siamo arrivati alla conclusione che, in Cristo, viene sublimato un segreto millenario che attiene alla natura della vita. Sappiamo anche che Nostradamus identifica quel segreto con gli elementi costitutivi della vita stessa (DNA, sangue, soffio vitale). Ricorderete che il punto di partenza è stato proprio un Vangelo: quello di Matteo che, con la sua genealogia, ci ha messi sulla pista del segreto. Che bisogno avrebbe avuto l’evangelista di proporre un enigma sul quale non sono stato solo io a interrogarmi, ma tutti gli studiosi degli ultimi 2000 anni?
Che interesse aveva a proporre un enigma, se esso non avesse avuto un legame occulto con il seguito della narrazione evangelica?
Non deve sorprendere, quindi, se cerchiamo un nesso con l’istituzione dell’Eucaristia, nel corso dell’ultima cena, durante la quale il momento culminante è quello della celebrazione del “sangue”, quale base della nuova alleanza e della remissione dei peccati.
Attenzione, però: al contrario degli altri evangelisti, il discepolo prediletto, che era presente alla cena e stava appoggiato sul petto di Gesù (Gv. 13, 23), nel suo Vangelo non fa stranamente menzione di un evento così sublime. Egli racconta sì della necessità di mangiare la carne di Cristo e di bere il suo sangue, ma lo fa in un altro contesto, nel corso di una disputa con i Giudei:

In verità, in verità vi dico: se non mangerete la carne del Figlio dell’uomo e non berrete il suo sangue, non avrete in voi la vita (Gv. 6, 53)

Il quarto evangelista non ignora, quindi, l’insegnamento eucaristico, ma lo colloca come insegnamento pubblico, piuttosto che come insegnamento riservato ai partecipanti all’ultima cena. Inoltre, la sua visione del mistero eucaristico consiste in una stretta relazione con la vita (“se non mangerete… e non berrete… non avrete la vita”), a differenza degli altri evangelisti e dell’apostolo Paolo, i quali vi vedono il simbolo di una indefinita nuova alleanza e un rito commemorativo: “Fate questo in memoria di me” (Lc. 22, 19); questo calice è la nuova alleanza (Lc. 22, 20); “…tutte le volte che voi mangiate di questo pane e bevete di questo calice, celebrate la morte del Signore, finché egli venga” (1 Corinti, 11, 26).


martedì 8 gennaio 2013

Giuseppe di Arimatea: il discepolo


Quelle che seguono sono le domande del secondo dei tre gruppi proposti nei brani precedenti:

E’ possibile che sia stato Giuseppe il discepolo misterioso che fece entrare Pietro nella casa del sommo sacerdote?
E’ possibile che proprio lui sia stato il discepolo beneamato, autore del Vangelo di Giovanni?
E’ possibile che abbia ricevuto un incarico speciale da Gesù?
Perché l’autore del Vangelo di Giovanni, al contrario degli altri tre canonici, non menziona l’istituzione dell’Eucarestia nel corso dell’ultima cena?

Mi sono chiesto a lungo perché mai Gesù abbia accettato un discepolo (Giuseppe di Arimatea) che non ha rinunciato ai suoi privilegi. Non ho una risposta certa, ma una pluralità di risposte plausibili:

Gesù conosce e giustifica le debolezze umane, se sono accompagnate da un cuore sincero; perdona perfino Pietro, pur sapendo che lo rinnegherà nel momento critico.
Gesù trova in Giuseppe un interlocutore colto e attento alle cose di Dio (“membro distinto del Consiglio, che aspettava egli pure il regno di Dio” dice Matteo), più in sintonia con il suo pensiero rispetto a quanto lo siano gli altri discepoli.
Gesù vede in Giuseppe l’uomo al quale poter affidare un incarico segreto finale che gli altri discepoli non capirebbero.
Gesù e Giuseppe sono di medesima estrazione essena o, comunque, vicini per formazione, se si accetta che Giuseppe sia il discepolo anonimo che abbandona Giovanni Battista per seguire Gesù (Gv. 35 e segg.).
Gesù vede in Giuseppe una fedeltà meditata e convinta, rispetto a quella istintiva e interessata degli apostoli; quella fedeltà che, poi, troverà espressione nella richiesta del corpo di Cristo a Pilato, per la sepoltura, proprio quando gli apostoli faranno a gara per nascondersi.

Voglio spingermi oltre, ipotizzando che la cultura religiosa e la profonda fedeltà di Giuseppe facciano di lui il discepolo prediletto, al quale Gesù confida i misteri più profondi, che gli apostoli “illetterati e ignoranti[1]” (Atti 4, 13) non sono in grado di capire.

Proviamo a guardare da un diverso punto di vista.

Nel Vangelo di Giovanni si aggira un discepolo misterioso del quale viene taciuto il nome; sarà egli stesso, alla fine, a qualificarsi come l’autore del Vangelo: “E’ lui il discepolo che attesta queste cose” (Gv. 21, 24).
Questo stesso discepolo anonimo è colui che ha fatto entrare Pietro nella casa di Caifa e che, abbiamo concluso in un precedente post, non poteva essere Giovanni, come ci è stato sempre insegnato. Solo Giuseppe aveva l’autorevolezza per farlo.
Ci siamo meravigliati come mai Giovanni, presente alla trasfigurazione di Cristo, non facesse menzione di questo straordinario episodio nel suo Vangelo. La questione cadrebbe se il misterioso autore del Vangelo non venisse identificato con Giovanni ma con Giuseppe, non presente all’evento.
Il discepolo anonimo viene sempre qualificato come discepolo “prediletto”; c’è evidentemente un legame di affetto con Gesù che supera quello degli altri. Possibile, appunto, che si tratti di Giuseppe: l’unico a non tirarsi indietro nel momento critico e che, anzi, antepone un gesto di amore ai propri interessi personali.

Non interessa, in questa sede, andare oltre con le dimostrazioni. Lo scopo è di verificare la coerenza delle nostre ricostruzioni con il racconto di Boron.

Ecco alcuni brani, estratti dal Boron, nei quali Gesù parla a Giuseppe di Arimatea:

Tu eri un mio buon amico e io ti conoscevo bene
Ero certo che mi avresti aiutato e soccorso nel momento in cui nessuno dei miei discepoli poteva aiutarmi
Tu mi hai amato in segreto e in segreto io ho amato te

Fin qui, il racconto di Boron è del tutto coerente con le conclusioni da noi tratte dall’analisi dei Vangeli. Poi, Boron aggiunge che, in qualità di discepolo beneamato, Giuseppe riceve il privilegio di un incarico speciale: la custodia della coppa nella quale lui stesso ha raccolto il sangue di Cristo deposto dalla croce e che Cristo gli riconsegna in prigione, dicendogli:

Sappi che il nostro amore sarà manifestato a tutti e sarà terribile per i miscredenti, perché custodirai il simbolo della mia morte.

Poi, Boron aggiunge:

Allora Gesù Cristo insegnò a Giuseppe alcune parole che non oso dire né rivelare… è il Credo del mistero del Graal

Possiamo trovare tracce, nei Vangeli, "dell'incarico speciale" dato a Giuseppe? E quali potrebbero essere le parole segrete alle quali Boron allude?



[1] L’espressione, negli Atti degli Apostoli, è riferita a Pietro e a Giovanni. Tuttavia, può essere estesa a quasi tutti gli altri apostoli, prescelti tra le classi sociali meno elevate.



lunedì 7 gennaio 2013

Giuseppe di Arimatea: la fotografia


Le domande che, nel post precedente, ci siamo posti su Giuseppe di Arimatea possono essere raggruppate in tre rami principali: il primo attiene a ciò che si sa di lui; il secondo a ciò che si potrebbe dedurre da alcuni fatti e comportamenti; il terzo alle motivazioni che possono giustificare la scarsa attenzione, forse ostilità, riservata al personaggio da parte della Chiesa.

Il primo gruppo ruota attorno a tre considerazioni fondamentali:

Giuseppe è benestante
Giuseppe riveste un ruolo sociale autorevole
Giuseppe ha un legame con Gesù.

Vediamo cosa ci dicono, in proposito, i vari Vangeli:

Fattasi sera, venne un uomo ricco di Arimatea, chiamato Giuseppe, il quale era pure discepolo di Gesù. Egli si presentò a Pilato e gli chiese il corpo di Gesù. Pilato ordinò che gli fosse dato (Mt. 27, 27-58).

Matteo fornisce conferma a tutte le nostre tre questioni dicendoci, anzitutto, che Giuseppe era un uomo ricco ed era discepolo di Gesù. 
In secondo luogo, se egli ha la possibilità di presentarsi a Pilato, governatore della Giudea, e di chiedergli il corpo di Gesù, evidentemente ha uno “status sociale” che gli consente di farlo. Dal fatto che Pilato non solo lo riceve, ma accoglie la sua richiesta, deduciamo che il suo è uno “status” di rilievo nei rapporti tra i Romani e i Giudei.

Abbastanza simile a quello di Matteo è il racconto di Marco (Mc. 15, 43):

Giuseppe d’Arimatea, membro distinto del Consiglio, che aspettava egli pure il regno di Dio, venne ed ebbe il coraggio di presentarsi a Pilato per chiedergli il corpo di Gesù.

Scopriamo così da Marco che Giuseppe era un membro del Sinedrio di “rango elevato” (membro distinto).

Ulteriori dettagli ci vengono forniti da Luca (Lc. 23, 50-52):

Ed ecco un uomo di nome Giuseppe, membro del Sinedrio, persona dabbene e giusta: egli non aveva approvato la loro decisione né i loro atti; egli era di Arimatea, città della Giudea e aspettava il regno di Dio: andò da Pilato e chiuse il corpo di Gesù.

Giuseppe reagisce, dunque, dissentendo dalla decisione del Sinedrio: il gesto di un uomo coraggioso che, di fronte a una sentenza di condanna già preconfezionata verso Cristo, mette da parte la salvaguardia della sua persona e del suo ruolo. Per valutare meglio la portata del suo coraggio, confrontandola con una ipotetica situazione analoga dei nostri tempi, potremmo immaginare la posizione di un membro dissenziente all’interno di un tribunale politicizzato in uno stato totalitario.

Un ultimo particolare, infine, viene aggiunto da Giovanni (Gv. 19, 38):

Dopo queste cose, Giuseppe d’Arimatea, discepolo di Gesù, ma occulto, per timore dei Giudei, chiese a Pilato di poter togliere il corpo di Gesù e Pilato lo permise.

Abbiamo conferma che Giuseppe fosse discepolo di Gesù, con la precisazione che era un discepolo in incognito, visto il suo ruolo pubblico.

Passando ai Vangeli apocrifi, rileviamo altre conferme e ulteriori dettagli:

era lì presente Giuseppe, l’amico di Pilato e del Signore (Vangelo di Pietro II, 3)

Che Giuseppe fosse amico di Pilato è una novità abbastanza verosimile. E’ più che ovvio che Pilato conoscesse i membri importanti del Sinedrio; un qualche grado di familiarità con Giuseppe, invece, è testimoniato dal fatto che, a titolo personale, egli chieda e ottenga il corpo di Cristo, nonostante il clima di odio da parte del resto del Sinedrio e dello stesso Sommo Sacerdote. E i sacerdoti, infatti, non mancano di esprimere il loro dissenso quando, scoperta la concessione di Pilato a Giuseppe, chiedono che, almeno, il sepolcro venga custodito dai romani affinché il corpo non venga trafugato (Mt. 27, 62-66).
Notevole il contrasto tra il comportamento di Pilato di fronte all’amico Giuseppe, alla cui richiesta accondiscende, e quello nei confronti dei Sacerdoti, verso i quali ha una reazione irritata: “Avete un picchetto di guardie: andate, sorvegliate come volete” (Mt. 27, 65); come dire, “fate quello che volete, ma non mi state  ancora a scocciare”.

Proseguiamo:

Ma ecco un uomo, di nome Giuseppe, un consigliere, della città di Arimatea, il quale aspettava il regno di Dio, recatosi da Pilato, richiese il corpo di Gesù (Vangelo di Nicodemo: Testo greco A - XI,3)

Ma Nicodemo ed io, Giuseppe, vedendo quel tribunale di pestilenza [il sinedrio], ci allontanammo da loro, non volendo perire insieme a quel consesso di empi (Dichiarazione di Giuseppe di Arimatea II,4).

Tutti i Vangeli canonici e diversi degli apocrifi testimoniano dunque, in maniera pressoché concorde, sul ruolo pubblico di Giuseppe e sul suo coraggio nell’uscire allo scoperto, incurante della sua sorte personale.
E’ un fatto alquanto infrequente che un episodio trovi delle conferme così unanimi ed è proprio questo rilievo dato al personaggio che rende sorprendente il silenzio che, poi, lo accompagnerà nei secoli.

Alcuni Vangeli apocrifi narrano anche che verrà imprigionato per l’amore dimostrato verso Gesù. Lo stesso Boron racconta che Gesù gli apparve proprio in prigione per consegnargli il Graal.

Ecco, dunque, la foto di Giuseppe di Arimatea che viene fuori da una sintesi delle varie descrizioni:

uomo ricco, membro di spicco del Sinedrio, fedele discepolo di Cristo in incognito, giusto e coraggioso, amico di Pilato.