Come ho scritto la volta scorsa, il Graal è un mito
antico, antecedente al cristianesimo.
Qualcuno lo identifica perfino con la biblica Arca
dell’Alleanza, sebbene questo sia chiaramente un esempio della facile ed
abusata tendenza a ricondurre qualsiasi mistero irrisolto al concetto di Graal;
addirittura assurda l’associazione che qualcuno ha fatto con la Sacra Sindone.
In realtà, la sua origine trova radici nella stessa creazione dell’uomo. Esso sarebbe una pietra caduta
dalla fronte di Lucifero, colpito dall’arcangelo Michele.
Eschenbach, una delle fonti più autorevoli della
leggenda, nel suo “Parzival” sostiene che il Gral (con una sola “a”; vedremo
che è importante) fu lasciato sulla terra da una schiera di angeli venuti dalle
stelle e poi ripartiti. Il suo nome è “Lapsit exillis” ed ha la proprietà di
far risorgere la Fenice dalle sue ceneri.
Il significato della parola è ignoto; qualcuno ritiene che il termine
corretto debba essere “lapis ex coelis” (pietra celeste); altri preferiscono
leggerlo come “lapis exilii” (pietra dell’esilio), con riferimento all’uomo
esiliato sulla terra.
In ogni caso, il Gral è un concetto che allude ad una
rinascita alle proprie radici celesti (o divine): è appunto il mito della Fenice che risorge dalle proprie ceneri; l’uomo che riconquista la propria
origine. Impossibile non vedere l’uomo pellegrino, alla ricerca del paradiso
perduto da suo padre Adamo.
Qualunque cosa sia in concreto, il Graal “originario”,
non ancora inquinato dalla commistione con leggende ad esso estranee (seppure
spesso di grande interesse), è perciò la parola perduta, la conoscenza
salvifica primordiale.
Lo stesso simbolismo della pietra caduta dalla fronte di
Lucifero ricorda il terzo occhio, o occhio di Shiva, attraverso il quale si
accede a una visione trascendente.
Solo se il Graal viene inteso sotto questo aspetto, il Re
Pescatore della leggenda può svolgere il ruolo a lui assegnato di uomo
sofferente, che non può lasciare questo mondo senza aver trovato un degno erede
del Sacro Calice. E’ il mito orientale del Bodhisattva che si sacrifica per la
salvezza degli uomini, rinunciando a diventare Buddha senza prima aver
trasmesso la fiaccola dell’illuminazione.
Mi sembra che, finora, la figura del Re Pescatore sia
stata piuttosto sottovalutata nella ricerca della spiegazione del Graal. Egli è
invece uno dei protagonisti principali, sempre presente sullo sfondo, che non
può essere ignorato a beneficio di spiegazioni di comodo.
Egli incarna il mitico vincolo della trasmissione della
parola iniziatica da maestro a discepolo; quest’ultimo non la può conquistare
senza un aiuto dall’esterno, preceduto
da un personale e doloroso processo di ricerca, esattamente come accade a
Parzival che, anzi, deve addirittura ricominciare quando il maestro, il Re
Pescatore, non lo ritiene ancora pronto ad accogliere la conoscenza.
Il Re Pescatore, dunque, è anche giudice: quel giudice
tremendo che, nell’ultima profezia di Malachia (cfr. il libro “Malachia: la
profezia dei papi”) giudica il suo popolo dopo che la città dei sette colli
è stata distrutta. E’ fin troppo evidente il riferimento alla dissoluzione
del corpo materiale e ai sette chakra. Se, al riguardo, vi state domandando chi
sia allora Petrus Romanus, vi dico subito che egli è l’ultimo pontefice e vi
ricordo che la parola “pontefice” viene da “pontem facere” (fare il ponte – tra
uomo e Dio). L’ultimo ponte[fice], dunque, è l’ultimo ponte che unisce l’uomo
inferiore all’uomo divino. Guénon affronta compiutamente il simbolismo del
ponte che, steso tra le due rive di un fiume (vi dice niente l’acqua che scorre?),
unisce simbolicamente il cielo alla terra. Spesso, pur avendo la verità sotto gli occhi, tentiamo di acchiappare le lucciole anziché le lanterne.
Mi rendo conto di correre troppo ma, per cominciare a
sollevare almeno un lembo del velo che copre il Graal, bisognava prima chiarire
bene il ruolo di Parzival e quello del Re Pescatore.
Complimenti
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