Tecniche di Nostradamus

mercoledì 4 giugno 2014

Graal: storia e mito (2)

Come ho scritto la volta scorsa, il Graal è un mito antico, antecedente al cristianesimo.
Qualcuno lo identifica perfino con la biblica Arca dell’Alleanza, sebbene questo sia chiaramente un esempio della facile ed abusata tendenza a ricondurre qualsiasi mistero irrisolto al concetto di Graal; addirittura assurda l’associazione che qualcuno ha fatto con la Sacra Sindone.

In realtà, la sua origine trova radici nella stessa creazione dell’uomo. Esso sarebbe una pietra caduta dalla fronte di Lucifero, colpito dall’arcangelo Michele.
Eschenbach, una delle fonti più autorevoli della leggenda, nel suo “Parzival” sostiene che il Gral (con una sola “a”; vedremo che è importante) fu lasciato sulla terra da una schiera di angeli venuti dalle stelle e poi ripartiti. Il suo nome è “Lapsit exillis” ed ha la proprietà di far risorgere la Fenice dalle sue ceneri.  Il significato della parola è ignoto; qualcuno ritiene che il termine corretto debba essere “lapis ex coelis” (pietra celeste); altri preferiscono leggerlo come “lapis exilii” (pietra dell’esilio), con riferimento all’uomo esiliato sulla terra.
In ogni caso, il Gral è un concetto che allude ad una rinascita alle proprie radici celesti (o divine): è appunto il mito della Fenice che risorge dalle proprie ceneri; l’uomo che riconquista la propria origine. Impossibile non vedere l’uomo pellegrino, alla ricerca del paradiso perduto da suo padre Adamo.
Qualunque cosa sia in concreto, il Graal “originario”, non ancora inquinato dalla commistione con leggende ad esso estranee (seppure spesso di grande interesse), è perciò la parola perduta, la conoscenza salvifica primordiale.
Lo stesso simbolismo della pietra caduta dalla fronte di Lucifero ricorda il terzo occhio, o occhio di Shiva, attraverso il quale si accede a una visione trascendente.

Solo se il Graal viene inteso sotto questo aspetto, il Re Pescatore della leggenda può svolgere il ruolo a lui assegnato di uomo sofferente, che non può lasciare questo mondo senza aver trovato un degno erede del Sacro Calice. E’ il mito orientale del Bodhisattva che si sacrifica per la salvezza degli uomini, rinunciando a diventare Buddha senza prima aver trasmesso la fiaccola dell’illuminazione.
Mi sembra che, finora, la figura del Re Pescatore sia stata piuttosto sottovalutata nella ricerca della spiegazione del Graal. Egli è invece uno dei protagonisti principali, sempre presente sullo sfondo, che non può essere ignorato a beneficio di spiegazioni di comodo.
Egli incarna il mitico vincolo della trasmissione della parola iniziatica da maestro a discepolo; quest’ultimo non la può conquistare senza un aiuto dall’esterno,  preceduto da un personale e doloroso processo di ricerca, esattamente come accade a Parzival che, anzi, deve addirittura ricominciare quando il maestro, il Re Pescatore, non lo ritiene ancora pronto ad accogliere la conoscenza.
Il Re Pescatore, dunque, è anche giudice: quel giudice tremendo che, nell’ultima profezia di Malachia (cfr. il libro “Malachia: la profezia dei papi”) giudica il suo popolo dopo che la città dei sette colli è stata distrutta. E’ fin troppo evidente il riferimento alla dissoluzione del corpo materiale e ai sette chakra. Se, al riguardo, vi state domandando chi sia allora Petrus Romanus, vi dico subito che egli è l’ultimo pontefice e vi ricordo che la parola “pontefice” viene da “pontem facere” (fare il ponte – tra uomo e Dio). L’ultimo ponte[fice], dunque, è l’ultimo ponte che unisce l’uomo inferiore all’uomo divino. Guénon affronta compiutamente il simbolismo del ponte che, steso tra le due rive di un fiume (vi dice niente l’acqua che scorre?), unisce simbolicamente il cielo alla terra. Spesso, pur avendo la verità sotto gli occhi, tentiamo di acchiappare le lucciole anziché le lanterne.
Mi rendo conto di correre troppo ma, per cominciare a sollevare almeno un lembo del velo che copre il Graal, bisognava prima chiarire bene il ruolo di Parzival e quello del Re Pescatore.

…segue…

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