All’epoca, e anche adesso se penso in retrospettiva,
mi veniva difficile apprezzare l’appoggio religioso al comportamento rivoltoso
di un popolo, ipocritamente strumentalizzato dalle potenze mondiali
antisovietiche che, però, si tenevano al riparo all’interno dei loro confini.
Insomma, mi sarebbe sembrato più equo se, proprio al
contrario di quanto è effettivamente accaduto, la Chiesa si fosse limitata a un
sostegno morale e di solidarietà agli oppressi, lasciando alle potenze
temporali il compito di appoggiarli più concretamente con l’intelligence e coi
mezzi politici e finanziari. Inoltre, è difficile non vedere un atteggiamento
di parzialità in un Papa polacco, padre spirituale di tutta l’umanità, che agisce nell’interesse del suo popolo di
origine, pur in presenza di molti altri popoli ugualmente affamati e oppressi
sulla faccia della terra, per i quali nessuno muove un dito.
L’impresa è avvenuta ai tempi dello scandalo dello
IOR e di Marcinkus; quindi, con il probabile supporto delle finanze vaticane e,
si dice, dell’Opus Dei, elevata da Giovanni Paolo II a prelatura personale nel
1982. Il suo fondatore, il discusso Josemaria Escrivà de Balaguer, è stato
canonizzato nel 2002, in tempi piuttosto rapidi rispetto a quelli di una
normale canonizzazione. La riconoscenza verso l’Opus Dei è stata uno degli
elementi di valutazione della “santità”?
“Non tocca a me giudicare”, mi dicevo quella
mattina, mentre aspettavo. Ma è difficile impedire ai pensieri di seguire il
proprio corso. Tornando con la mente agli anni ’80, vedevo nel comportamento
del Pontefice, capo di tutta la cristianità, una intrusione indebita negli
affari interni di un Paese, in sostituzione degli organismi internazionali
preposti. Non lo vedevo più, o non solo, come leader religioso, ma soprattutto
come leader politico che utilizzava la sua influenza, alimentata
dall’universalità dei cattolici, per aiutare il suo Paese.
E questo, pur con ogni simpatia e solidarietà verso
il popolo polacco, non mi piaceva.
Per altro verso, il 13 maggio 1981, il Papa era già
stato vittima dell’attentato a piazza S. Pietro. Non è mai stato chiarito da
chi sia stata armata la mano che ha sparato, appartenente al turco Alì Agca;
sono sempre stati forti i sospetti che l’ordine di uccidere sia partito dal
lato orientale della cortina di ferro, proprio nel timore che il Papa polacco
potesse fornire al suo popolo quel sostegno che poi, effettivamente, ha
fornito.
Nonostante le profonde perplessità, non potevo non
ammirare quest’uomo che, dopo aver rischiato la vita e nonostante le
conseguenze dell’attentato, era rimasto fedele alla sua volontà di combattere
il “male assoluto” rappresentato dalla dittatura sovietica. Non potevo non
ammirare il leader spirituale che, nonostante le sue sofferenze fisiche e l’età
avanzata, continuava a girare per il mondo evangelizzando le genti e animando
le giornate della gioventù. Non potevo non apprezzare il carattere solare che
manifestava nei contatti con la gente. Non potevo non restare stupito per la
forza con la quale si aggrappava alla croce, come un balocco dal quale un bimbo
non intende staccarsi. Sollecitato da più parti a dimettersi, per l’aggravarsi
della sua salute, aveva deciso di esercitare fino in fondo il suo ministero.
E così, quella mattina, doveva venire in visita alla
parrocchia che frequento abitualmente: una piccola parrocchia di periferia, ben
felice di accogliere il suo “pastore” che, da parte sua, avrebbe avuto tutto il
diritto e tutte le ragioni di risparmiarsi la fatica di un bagno di folla.
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